Fino a Qui Tutto Bene – The Black Babe Ruth

Babe Ruth è stato il primo giocatore della storia a raggiungere quota 60 HR in una singola stagione.

29 settembre 1927. Nella prima partita della serie finale di regular season con i Senators, The Babe pareggia con due HR il suo stesso record di 59, ottenuto nel 1921.

21 che fu un anno fondamentale nella storia dei Bombers, al di là del record di Ruth. Coincise infatti con la prima apparizione alle World Series di quelli che un tempo erano conosciuti come gli Highlanders, ed erano decisamente la squadra meno importante della Grande Mela, dando vita, di fatto, alla dinastia della franchigia che diventerà la più vincente dello sport americano. Le otto partite di World Series giocate contro i Giants, che vinsero quella serie per 4-3, si disputeranno tutte nel tempio del Polo Grounds dove la franchigia del colonnello Ruppert e del capitoano Huston era “ospite” proprio dei G-Men dal 1913.

Il primo trionfo arriverà due autunni più tardi, nel 1923, in una rematch con gli ex coinquilini, proprio nell’anno dell’inaugurazione del primo Yankee Stadium, The House that Ruth Built, diventato una necessità dopo le insistenti pressioni di McGraw, storico manager dei Giants, stufo di dover condivide le attenzioni con i sempre più ingombranti Yankees del fenomeno killer con la faccia da Bambino.

Nel 27 NY è pronta ad iniziare una dinastia.

Diventano infatti, in quella stagione, la prima squadra della storia a restare in testa alla AL dal primo all’ultimo giorno di regular season, trascinati da quello che verrà ribattezzato il Murderers’ Raw, il lineup più devastante del gioco: Combs, Koenig, Ruth, Gehrig, Meusel e Lazzeri.

Dall’1 al 6. Obbligatoriamente in quest’ordine.

30 Settembre 1927. Tom Zachary, un onesto mestierante che chiuderà la carriera con un record di 186-191 e una media ERA di 3.73, è il lanciatore partente per Washington. Nel 29, proprio in maglia Yankees, chiuderà la stagione con un incredibile 12-0, il miglior record senza sconfitte nella storia della Major. Oggi però la sensazione tra il pubblico è che sia solo questione di tempo. Il destino del lanciatore pare segnato ancor prima di scendere sul diamante, nonostante il veterano già vincitore di una World Series nel 24 si sia messo in testa di provare qualsiasi trucco, lecito o meno, pur di evitare di entrare nella storia del gioco dalla porta sbagliata.

Speranze vane.

Tutti i presenti allo Yankee Stadium sanno che Ruth batterà il fuoricampo del record.

Sono lì per quello.

Nel primo turno il Sultan of Swat arriva in base con quattro lanci

Ti conviene girare la mazza perché non ne vedrai di palle buone per tutto il pomeriggio

Nel sesto prende le misure e riesce a battere un singolo.

Poi, finalmente, nell’ottavo inning, sul conto di 1-1, il giro di mazza decisivo.

La palla vola sull’esterno destro e sembra destinata a finire in zona di foul

Gli dei del baseball, evidentemente schierati con il numero 3, soffiano quel tanto che basta.

Home Run numero 60.

I’ve been wishing ever since I’d struck that pitch in his ear – Tom Zackary

Un traguardo inimmaginabile per quei tempi.

Un adulto tra i bambini. Oggi parleremmo di un Unicorno.

Per provare a spiegare cosa fosse Ruth rispetto alla “concorrenza” dei tempi basterebbe ricordarsi che il giorno in cui batterà il suo 600esimo fuoricampo, il 21 Agosto del 1931 in una partita vinta contro i St Louis Browns, il secondo in classifica, Roger Hornsby con i suoi 293HR si troverà a 307 lunghezze di distanza.

Non gliene sarebbero bastati il doppio per raggiungerlo.

Era semplicemente due piste avanti a tutti.

Aveva capito, senza che nessuno potesse o fosse in grado di spiegarglielo, come sfruttare tutto il suo corpo per aumentare la potenza dello swing, diventando quindi un’arma illegale per il baseball di quegli anni.

Andatevi a rivedere come batteva Honus Wagner, una delle prime super star del gioco.

Ruth faceva un altro sport.

Era un giocatore del futuro in un baseball del passato.

Ed infatti solo 5 giocatori, dopo il Bambino, riusciranno a battere almeno 60 HR in una stagione, ed uno, Aaron Judge lo stiamo proprio celebrando in questi giorni.

Il primo sarà Roger Maris, uno Yankee pure lui, ben 34 anni dopo Ruth. Toccherà quota 61 stabilendo un nuovo limite che resisterà per oltre 30 anni. Gli serviranno però 8 partite in più in calendario, ai tempi di Ruth le sfide di regular season erano 154 e non le 162 che sia giocano anche oggi, per iscrivere il proprio nome nel libro dei record. Questo dettaglio, unito alla pressione di media e tifosi che non avrebbero voluto vedere Maris infrangere il record del miglior giocatore della storia, porteranno l’opinione pubblica a screditare incomprensibilmente per anni l’incredibile traguardo dell’MVP del 1961.

Pressioni che subirà, in misura più violenta, Hank Aaron quando sarà chiaro a tutti che supererà la fatidica quota dei 714 HR battuti dallo slugger degli Yankees in carriera. Gli arriveranno lettere di minaccia di ogni tipo. A lui ed alla famiglia. Un ritratto perfetto dell’america razzista del tempo che non poteva sopportare che un negro si appropriasse del record di un bianco. Su questo ultimo dettaglio poi andrebbe aperta una parentesi, perchè anche Ruth fu vittima di razzismo e di illazioni relativamente alla sua “etnia” ma usciremmo troppo dal seminato. Ad ogni modo anche se Aaron riuscirà a superare Ruth, nella notte del 4 aprile del 74, portando poi record fino ai 755 HR con cui chiuderà la carriera, non si avvicinerà mai a sfiorare quota 60 in una singola stagione.

L’approccio di Hank al piatto infatti era infatti totalmente diverso da quello della stragrande maggioranza degli slugger di ieri e di oggi. Non cercava necessariamente il fuoricampo, impazziva per doppi e tripli, e andava estremamente orgoglioso delle total base, la somma delle basi ottenute attraverso le valide colpite da un battitore, categoria in cui credo di poter affermare, senza bisogno di particolari controlli, sia stato il migliore per distacco nella storia del gioco.

https://twitter.com/SInow/status/1380157169337786376?s=20&t=hr7EMQYfrrVokuf1OVczmw

Gli anni 90 per il baseball sono stati un periodo di transizione.

Uno spartiacque decisivo fu lo sciopero, il lockout, del ’94, che ebbe due effetti piuttosto singolari: la prima World Series cancellata dal 1904, una tragedia nazionale, ed il ritorno di Michael Jordan ai Bulls dopo il ritiro del 93.

E’ noto, perché fu proprio lo stesso MJ a dichiararlo, che se non ci fosse stato quello sciopero probabilmente il miglior giocatore ad essere mai sceso su un parquet, almeno fino ad allora, avrebbe continuato la sua carriera sui diamanti d’America. Non ci sarebbe quindi stato il secondo Three Peat dei Bulls, StocktontoMalone, che sono una parola sola come erano un tutt’uno in campo, avrebbero vinto almeno un titolo, il maestro Zen, al secolo Phil Jackson, sarebbe finito probabilmente nel dimenticatoio e mi piace pensare, ma non ne ho certezza, che i Knicks di Riley, una delle miglior squadre della storia a non aver mai vinto nulla, si sarebbero messi un anello al dito.

Il secondo effetto fu quello di iniziare quel processo di allontanamento dall’american pastime che oggi è uno dei temi della decadenza, vera o presunta, di un batti e corri alla ricerca di volti che possano rilanciare la tradizione di uno gioco troppo spesso uguale a sé stesso.

Quello che oggi l’MLB cerca disperatamente in sostanza arrivò, senza particolare preavviso, nella lunga estate del 1998.

E fu la salvezza della Lega.

E’ nitido nella mia memoria il ricordo di quell’Agosto di fine anni 90 in cui, ogni mattina, sbirciavo sulla gazzetta dello sport per avere aggiornamenti sulla sfida a colpi di fuoricampo tra McGwire e Sosa.

Quello che succedeva al di là dell’oceano era talmente eccezionale che il maggior quotidiano sportivo italiano, che non andava oltre le brevi quando doveva raccontare di qualsiasi altra cosa che non fosse calcio, dedicava almeno qualche riga, ogni giorno, a questa incredibile run.

Fu una battaglia senza esclusione di colpi tra due giocatori che, all’apparenza, si rispettavano.

L’eroe di casa, bianco, contro lo straniero, di colore.

Una dicotomia perfetta.

Quello che serviva per rilanciare la reputazione di uno sport in piena crisi.

La sfida a distanza si concluderà con la vittoria di McGwire che toccherà la fantascientifica quota di 70 HR, un traguardo inimmaginabile ancor più dei 60 di Ruth e dei 61 di Maris e che in quel momento, si pensò, avrebbe segnato il limite umano raggiungibile in una stagione di 162 partite.

Sosa, lo sconfitto, si fermerà invece a “soli” 66 diventando però, incredibilmente, il secondo giocatore all-time per HR in una stagione.

Provate a pensarci.

I tifosi avevano potuto assistere alla race tra i due migliori slugger su singola stagione della storia nello stesso momento.

Un evento eccezionale.

Non era stata la “classica” corsa tra giocatori di epoche diverse. Erano lì, spalla a spalla, addirittura nella stessa division.

Leader di due squadre divise da una rivalità storica come poche altre ne esistono nella Major League.

La MLB non avrebbe potuto scrivere un copione migliore.

Una cosa del genere, nella vita, mi è capitata di vederla solo quando Michael Johnson, alle Olimpiadi di Atlanta del ’96, vinse i 200 battendo il record di Mennea. Frankie Fredericks, arrivato secondo, fece anch’esso quello che sarebbe stato il new world record ma scelse la sera sbagliata per farlo.

E si dovette accontentare dell’argento.

Le due migliori prestazioni all-time di una specialità, lo stesso giorno, sulla stessa pista.

A soli 3 anni di distanza arriverà Barry Bonds a frantumare convinzioni appena acquisite e limiti umani conosciuti, portando l’asticella su singola stagione a 73. Chiuderà la carriera a 762 superando anche i 755 di Aaron e diventando, di fatto, il miglior slugger all-time.

Almeno stando ai numeri.

Inutile nascondere, con 20 anni di storia e scandali alle spalle, che la concomitanza di questi exploit sia stata tutt’altro che casule.

Diego Armando Maradona verrà trovato positivo al doping nei mondiali di USA 94 perché prenderà un farmaco, facilmente reperibile negli Stati Uniti e contenente efedrina, che era invece assolutamente legale nella Major League. Il caso Balco, la steroids era, farà il resto mettendo una serie di asterischi che solo la vostra coscienza, e comprensione del problema, potrebbero o potranno eventualmente eliminare.

Negli ultimi giorni, Pujols è diventato il quarto giocatore all-time a battere 700 fuoricampo. Una carriera leggendaria che ha trovato il finale perfetto.

https://twitter.com/MLBVault/status/1574505338635550721?s=20&t=hr7EMQYfrrVokuf1OVczmw

Nel frattempo Aaron Judge sta litigando con il destino per uguagliare il record di Roger Maris ma, come fu per Ruth quella sera di fine Settembre del 27, è solo questione di tempo.

Si potrebbe considerare completa la lista.

Almeno per quelli che sono i paletti che abbiamo deciso di tenere in considerazione.

Nella realtà però manca il più grande di tutti.

O quello che sarebbe potuto essere il più grande di tutti.

Josh Gibson è stato il miglior hitter della storia della Negro League e uno dei miglior catcher overall del gioco.

Ha avuto solo una unica grande sfortuna.

Essere nato in una era in cui ai giocatori di colore non era permesso giocare con i bianchi per quello che era definito un gentleman agreement.

Per ironia della sorte, che non è mai giusta con chi dovrebbe esserlo, morirà giovanissimo, a 36 anni, nel gennaio del 47, a pochi mesi dell’esordio con i Brooklyn Dodgers di Jackie Robinson.

Un evento che cambierà non solo la storia del baseball ma di tutto lo sport professionistico americano.

Satchel Paige, amico e compagno di squadra di Gibson, nonostante i 40 già compiuti farà a tempo per esempio, a vincere un titolo con gli Indians, quello del ’48.

Di Gibson possiamo invece solo immaginare cosa sarebbe potuto essere.

Un po’ ovunque viene riportato che fu in grado di battere OTTANTAQUATTRO, si avete letto bene, 84 fuoricampo in una sola stagione.

La sua placca alla HOF recita che ne colpì oltre 800 HR in carriera.

Il tutto ovviamente, al pari delle storie su Satchel Paige ed i giocatori della Negro League, è avvolto in un’ aura mistica che però non rende necessariamente meno vera, o romantica, la storia che stiamo raccontando.

Ma non è questo il punto.

I grandi della MLB del tempo, che ebbero modo di giocarci negli infiniti barstoriming che caratterizzavano le offseason di un baseball che non esiste più, lo descrissero come uno dei migliori della storia del gioco. Uno che avrebbe potuto fare le stesse identiche cose nella lega dei bianchi se solo glie ne fosse stata data la possibilità.

Grazie alla recente decisione della MLB di riconoscere parte della storia della Negro League, Gibson è comunque accreditato della seconda miglior stagione all-time per media battuta con .466 (1943) mentre sono solo 165 i fuoricampo omologati.

Era soprannominato da molti The Black Babe Ruth

Alcuni tifosi del tempo però, che ebbero la fortuna di veder giocare sia Gibson che Ruth, arrivarono a definire il secondo The White Josh Gibson.

E sinceramente non credo che il Bambino avrebbe avuto alcunché da ridire.