Paisà: Campy, Roy Campanella

Philadelphia, verso la seconda metà degli anni ’20.

Una vecchia palla malconcia, delle mazze sgangherate ormai alla fine dei loro giorni, ma a Roy e ai suoi amici non interessava della condizione dei loro oggetti sacri. Tutto ciò che contava era giocare a baseball. Roy faceva il catcher ma quel giorno la maschera gli impediva di vedere, così Roy decise di toglierla. Tommy fece partire un lancio e… BOOM! Il naso di Roy cominciò a sanguinare.

Al calar della sera Roy si presentò a casa per la cena. Mentre era a tavola, il padre John lo guardò in faccia e gli chiese: “Cosa è successo Roy?”

“Non fa così male, domani indosserò la maschera” – Rispose il figlio.

“Ma che risposta è questa! Credi che domani giocherai nuovamente a quel folle gioco?” – Esclamò il padre alzando la voce. John fece promettere a Roy che non avrebbe più giocato a baseball, e le regole per i quattro Campanella brothers erano rigidissime.

La mamma Ida era di origine afroamericane, il padre John era figlio di immigrati italiani. Roy era uno dei quattro figli nati dalla coppia che prima viveva a Germantown, e poi si trasferì a Nicetown, nel nord di Philadelphia, dove i bambini frequentarono le scuole integrate. A causa della loro “razza mista” (così veniva chiamata), lui e i suoi fratelli a volte venivano molestati da altri bambini della scuola. Il padre era bianco, la madre era di carnagione scura e per insultare Roy gli altri ragazzini lo chiamavano ‘half-breed‘, mezzosangue. Ma Roy Campanella aveva delle doti atletiche che usava con grande efficacia e successivamente, al liceo, verrà eletto capitano di ogni squadra sportiva in cui giocò.

Tuttavia, il baseball era la sua vera passione. Non poteva mantenere quella promessa fatta al padre. Doveva giocare a baseball. Il mondo di Roy era avvolto dal batti e corri: immagini di giocatori nella sua camera, la radio che raccontava interi pomeriggi di gioco sui campi e le partite della Big League viste dai tetti delle case adiacenti agli impianti sportivi. Una volta, Roy provò ad agguantare una palla spedita fuori campo da un battitore di quelle leghe e nel tentativo di prenderla al volo cascò da un chiosco facendosi molto male al polso. Di ritorno a casa, il padre gli disse: “Tutto quello sforzo e non sei nemmeno riuscito a prendere la palla!”

Non andava granchè bene a scuola, il baseball era una distrazione costante. Inoltre, fin da bambino lavorava duramente: si svegliava alle 2 di notte per consegnare il latte fresco, vendeva i giornali, lucidava le scarpe dei benestanti. E gli piaceva anche guadagnare i soldi.

Roy aveva conosciuto la brutalità del razzismo, l’aveva toccata con mano e l’aveva sofferta. Ma quando veniva l’ora di giocare a baseball, tutti quei ragazzini si dimenticavano improvvisamente del colore della sua pelle e del pregiudizio. Giocavano tutti insieme come se nulla fosse. Il diamante aveva la capacità di unire i bambini cancellando ogni sorta di problema.

Roy Campanella aveva capito che il baseball era fatto di magia. Aveva compreso che quello era LO SPORT.

Il piccolo Roy aveva deciso che, promessa o non promessa, avrebbe giocato a quel folle gioco…

@AlexCavatton sport addicted dal 1986
Amministratore di Chicago Bears Italia
Penna di Huddle Magazine dal 2018
Fondatore di 108 baseball su Cutting Edge Radio

Autore dei progetti editoriali:
"Chicago Sunday - 100 anni di Bears"
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