L’improbabile storia di Jimmy Bonner

La vita a volte offre strani incroci e strane occasioni, delle sliding doors inaspettate frutto di uno strano allineamento astrale e di due tanto diverse quanto paradossali condizioni economico-sociali ad un oceano di distanza che hanno offerto la fugace gloria a colui che venne catapultato un sistema più grande di lui, un uomo dimenticato ma scoperto.
È la storia di Jimmy Bonner, o “Bonna” con il tipico accento del sud, un ragazzo proveniente dalla Louisiana rurale che grazie ad un operaio delle ferrovie, un meccanico ed un uomo d’affari divenne il primo afro-americano a giocare nel campionato giapponese di baseball, undici anni prima del debutto di Jackie Robinson con la casacca dei Brooklyn Dodgers.

Il primo protagonista di questa storia è l’operaio delle ferrovie: si chiama Lonnie Goodwin, vive in California ed allena con discreto successo nella Negro League i Los Angeles White Sox, una formazione interamente composta da giocatori afro-americani ad eccezione del seconda base, un ragazzo di origini giapponesi visto allo stadio dei White Sox mentre giocava una partita con i suoi Los Angeles Nippons e subito aggregato in sqadra.
Essendo la California il ponte verso il Pacifico negli Stati Uniti dell’epoca l’immigrazione asiatica era sempre più prepotente, tantissimi arrivavano dal Giappone, dove lo yakyuu aveva immediatamente fatto breccia sul popolo sin dall’arrivo dei primi statunitensi sull’isola a metà del 1800, vale a dire nel momento in cui le “navi nere” del commodoro Matthew Perry arrivarono nella Baia di Tokyo e obbligarono di fatto il Paese – da oltre 250 anni sotto la rigida politica del sakoku (“Paese incernierato”) promossa dallo shōgunato dei Tokugawa – a riaprirsi verso l’Occidente, tanto da arrivare ai trattati di “amicizia e commercio tra Stati Uniti e Giappone” del 1859 che permettevano anche la libera circolazione dei cittadini tra alcuni porti e che saranno causa di sommosse in vari feudi che il 3 gennaio1869 segneranno la fine del bakufu, il governo militare, e restaureranno il potere dell’imperatore Meiji.

Negli Stati Uniti le principali zone di sbarco furono più a nord rispetto a Los Angeles: la Bay Area, la zona intorno a San Francisco e Oakland iniziò a diventare un crogiuolo perlopiù pacifico di culture, mentre gli immigrati proventi proprio dal Sol Levante trovarono terreno comune con gli abitanti del posto proprio grazie allo sport del batti e corri, sempre rigorosamente al pari degli afro-americani, senza poter ovviamente alle massime leghe “whites only”.

I molti scambi ed incontri tra queste due tanto diverse culture permisero al primo protagonista della storia di conoscere il secondo, un meccanico di Fresno con un trascorso come di giocatore di baseball alle Hawaii e nato ad Hiroshima, che seguendo la rotta pacifica aveva trascorso tutte le proprie tappe sui diamanti, diventando, una volta arrivato nella città californiana, manager oltre che capitano del Fresno Athletic Club, team composto da soli giocatori nipponici. Kenichi Zenimura, questo il nome dell’uomo, sarà ben più che un semplice giocatore-allenatore di semi-professionisti, ma diventerà un vero e proprio visionario, utilizzando per i suoi obiettivi il baseball ed uno spiccato senso per il marketing, nonché una mente più aperta di altre.


Un giorno durante una partita tra i Los Angeles White Sox e Fresno, vinta da questi ultimi, è lo stesso Zenimura ad avere un’idea: nel corso della sua carriera ha spesso radunato giocatori nippo-americani per portarli in patria ed espandere la conoscenza del gioco, perché non fare un tentativo ed invitare Goodwin? 

Dietro a questa idea si nascondeva però altro, un pesante fardello politico aggravato dall’Immigration Act del 1924 con cui vennero chiusi i porti statunitensi per gli immigrati giapponesi e che fece crescere un grosso risentimento nel governo centrale di Tōkyō e non solo: sono gli anni tra le due Guerre in cui in Giappone i militari ottengono sempre più potere e si fomenta un sentimento nazionalistico assai forte. Gli scontri nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale sono sempre più vicini, ed anche Zenimura lo sa, ma vuole cercare di fermare la tensione sul nascere attraverso lo sport che più lega i due Stati, ed una rappresentativa di emarginati nella loro stessa casa sarebbe l’ideale per mostrare al mondo un sentimento di fratellanza.  

La risposta del ferroviere è affermativa: una rappresentativa di Negro League andrà in tournée in Giappone. Siamo nel 1927, sette anni prima che lo stesso viaggio sarà compiuto da Babe Ruth, Lou Gehrig, Lefty Gomez, Jimmy Foxx, Moe Berg e tante altre leggende dell’American League, sempre mediato dai rapporti diplomatici di Zenimura.

Ad arrivare al Meiji Shrine Stadium di Tōkyō nella primavera del 1927 è il Fresno Athletic Club di Zenimura ed i Philadelphia Royal Giants, un all-star team ante litteram formato da quattordici giocatori di peso ed atletismo nettamente superiore ad ogni possibile rivale. In tutto giocarono 24 partite, chiudendo con un record di ventitré vittorie ed un’unica sconfitta giunta – raccontano le cronache dell’epoca – solo a causa di un errore arbitrale piuttosto evidente.
Quello che interessava però a Zenimura e Goodwin non era tanto il risultato del campo, ma quello del clima respiratosi all’arrivo di una selezione di afro-americani in un Paese che per generazioni e generazioni non aveva mai visto alcun straniero al di fuori di sporadici mercanti olandesi confinati al solo porto di Nagasaki.
Ancora una volta ebbe ragione il meccanico di Fresno: i locali furono entusiasti di questa visita, lo stadio sempre pieno di gente per ammirare le gesta di questi gaijin (“stranieri”), che da parte loro risposero dispensando sorrisi ed assoluta cordialità. A suggellare questa vera e propria amicizia tra il popolo giapponese ed i Royal Giants il capitano degli All-Stars Rap Dixon si vide consegnare un trofeo commemorativo da un giovane di appena 26 anni che aveva appena preso le redini del Paese con il nome di Shōwa, ma che il mondo imparerà a conoscere meglio qualche anno più tardi con il suo nome personale, Hirohito. Non male, per chi di norma non poteva nemmeno camminare a fianco del proprio vicino di casa, ricevere elogi dal diretto discendente di Amaterasu, la divinità del sole da cui si credeva discendesse tutta la famiglia imperiale giapponese.

Il tour dei Royal Giants fu un successo – vero – ma fu un successo estemporaneo: una volta tornati negli Stati Uniti le cose non cambiarono, ed i rapporti tra i due Paesi erano ormai compromessi per trovare un terreno comune su cui lavorare. Il clima di rassegnazione non si addiceva però alla costa californiana, ed è lì che capita a partire dai primi anni ’30 il vero protagonista della nostra storia, Jimmy Bonner.
Spinto fino a lì dalla Louisiana, Bonner era un submarine pitcher destrorso, con una buona propensione per questo sport ma non il talento cristallino di altre stelle: non giocò mai infatti nella Negro League, rimanendo sempre in leghe semi-professionistiche e partecipando alla Berkeley International League, una lega indipendente fondata nella Bay Area qualche anno prima da Byron Reilly, un filantropo di colore impegnato in varie mansioni da giornalista e che tra i primi vide le potenzialità nel non creare un campionato per afro-americani, bensì in campionato per tutti i “non-bianchi”, comprendendo al proprio interno anche latino-americani, giapponesi e cinesi.

La partecipazione alla Berkeley International League del 1936 con la casacca dei Berkeley Grays fu il vero turning point nella carriera di Bonner: in aprile effettuò 17 strikeouts in una sola gara, mentre in settembre lanciò tre complete games in appena 48 ore effettuando 46 strikeouts e consegnando nelle mani dei Grays il titolo. Queste prestazioni lo portarono alla ribalta locale, ma come fece un semi-professionista di colore a raggiungere Tōkyō per giocare a baseball e, soprattutto, perché era richiesto?

Per rispondere è più comodo partire dalla seconda domanda: in Giappone erano rimaste impresse le prestazioni dei Royal Giants di qualche anno prima e attraverso il grande lavoro di Shoriki e O’Doul (ne abbiamo parlato nell’ultima puntata) venne creato primo campionato nazionale nel 1936, la Japan Occupational Baseball League, tante squadre cercavano il gran colpo proveniente dall’altra parte del Pacifico, in particolare una: i Dai Tōkyō, la peggior squadra della lega (e non è un riferimento al film Major League, nelle prime 14 partite della loro storia ne persero 13 e ne pareggiarono una). La dirigenza della squadra aveva un contatto proprio in California, quello di Harry Kono, l’ultimo grande protagonista della vicenda, un uomo d’affari di Alameda con una grande passione per il baseball e con diversi soldi.

Per inquadrare il tipo di persona basti pensare che l’anno seguente, nel 1937, formò una selezione chiamata Alameda Kono All-Stars che giocò 62 partite d’esibizione in Giappone, dopo un viaggio in nave in cui il menù consisteva in salmone affumicato, costolette di manzo, lingua di bue bollita e fagiano arrosto, con l’alternativa di zuppa di miso e crackers per coloro che soffrivano maggiormente il mal di mare. Al termine di quella spedizione, che vedeva schierato in campo anche Kenichi Zenimura, quattro giocatori scelsero di rimanere in Giappone per unirsi al nuovo campionato. Qualche anno dopo, durante la Seconda Guerra Mondiale, Kono formò una nuova selezione da inviare nel Paese del Sol Levante per giocare partite d’esibizione, con il solo problema che fece tutto ciò mentre si trovava recluso al Gila River, un campo di prigionia in Arizona, all’interno del quale nacque una sorta di piccola lega di baseball grazie alla mente illuminata di un altro prigioniero, Kenichi Zenimura.

Kono aveva visto le grandi prestazioni di Bonner a Berkeley e aveva così i contatti ed il nome giusto per rinforzare i Dai Tōkyō dopo il pessimo esordio. Sul contratto che sancì questa particolare trattiva ci fu infatti la sua personale firma. Ma perché Bonner e non un campione affermato della Negro League come, ad esempio, Satchel Paige? La semplice risposta sta nei numeri: il contratto che Paige percepiva dai Pittsburgh Crawford, squadra con cui disputò il campionato 1936, era di $500 al mese, mentre Bonner aveva firmato per 400 yen al mese (circa $116 col cambio di allora) più giornaliere cene a base di carne. La differenza di guadagni però non riguardava solamente Bonner ed i campioni della Negro League: rispetto agli stipendi della neonata Japan Occupational Baseball League il suo era un contratto da superstar; basti pensare che era quasi quattro volte più alto rispetto a quello di Eiji Sawamura, leggenda dello sport nipponico a cui è oggi dedicato il premio di miglior lanciatore in NPB.

Era davvero tutto fatto, ed il 5 ottobre 1936 Jimmy Bonner sbarcò sulle coste giapponesi con entusiasti titoli di giornale: “Il lanciatore nero è arrivato sulla scena. Eccellente difensore, detentore di uno straordinario record di strikeouts” e con la folla pronta a portarlo in trionfo. Un trattamento ben diverso da quello che ricevette Jackie Robinson al suo debutto in Major League.
Bonner venne accolto come un eroe dai tifosi del Dai Tōkyō (squadra antenata di quelli che sono oggi i Yokohama Baystars), convinti di aver trovato nel ragazzo della Louisiana la risposta ai rivali cittadini dei Tōkyō Kyojingun (divenuti poi Yomiuri Giants) che tra le propie fila vantavano il giapponese dagli occhi di ghiaccio, Victor Starffin, un ragazzo nato sugli Urali e trasferitosi in Hokkaido che divenne poi il primo lanciatore a raggiungere quota 300 vittorie nel massimo campionato giapponese.

Il primo impatto di Bonner fu ottimo: venne descritto come “atletico e carismatico” e nelle prime uscite non ufficiali fece piuttosto bene. Con l’inizio della stagione però tutto crollò: in quattro partite concesse 14 basi su ball, riuscì ad effettuare solamente 2 strikeouts, ed in un incontro commise un errore difensivo fatale che costò la partita alla sua squadra. Si comportò molto meglio in battuta, dove colpì 11 valide in 24 turni, ma le sue prestazioni in pedana di lancio, motivo per cui era stato acquistato, non convinsero la squadra che appena un mese dopo lo rispedirono negli Stati Uniti, ufficialmente per “ragioni di salute”, dove concluse la carriera prima tornando ai Berkeley Grays ed in seguito nei California Yellow Jackets e nei California Negro Giants, altre formazioni in leghe indipendenti dedicate a giocatori di colore. Si scoprì solo in seguito che quando giunse in Giappone Bonner non aveva realmente 24 anni come dichiarava, bensì era di cinque anni più anziano.

Una volta appeso il guantone al chiodo fece parte dell’U.S. Army nel 1943 e morì vent’anni più tardi, il 10 maggio 1963 nell’Alameda County. 

Nel 1952 John Britton e Jim Newberry, altri due atleti afro-americani, arriveranno in Giappone per giocare a baseball, seguendo le orme nascoste di un uomo passato in punta di piedi nella storia, come se si fosse trovato protagonista inconsapevole in un mondo troppo strano e troppo grande per chi, da semi-professionista in una lega indipendente, si era trovato quasi per caso ad essere il primo giocatore di baseball di colore in Giappone, per un singolo mese di gioco. Undici anni prima che Jackie Robinson calcasse i diamanti di Major League.