Lunedì scorso è stata fatta la storia del baseball o, più semplicemente, ne è stata riconosciuta una parte importante.
La Negro League, le cui prime World Series furiono disputate nel ’24, nasce come risposta a quel gentlement’s agreement tra proprietari che fin dalle origini, a metà 800, aveva estromesso gli afroamericani dalla Big Legue e che sarà infranto per la prima volta da Branch Rickey nel 1947 con la firma di Jackie Robinson.
Il processo di integrazione, sul diamante come nella società, sarà lunghissimo. Il primo afroamericano a vestire la maglia degli Yankees arriverà solo nel ’55 ma nel ’74 Hank Aaron riceverà continue minacce di morte durante la rincorsa ai 714 HR di Babe Ruth, battuto in una tiepida serata di inizio Aprile contro i Los Angels Dodgers, la squadra che fu di Jackie.
Nell’attuale MLB giocano un totale di 63 afroamenicani.
Il Baseball, dopo tanta fatica, è tornato ad essere “dei bianchi” in una sorta di ritorno al futuro prima trascurtato, poi sottovalutato ed ora economicamente insostenibile. La popolazione afroamericana rapperesenta infatti una porzione irrinunciabile del mercato a cui football, e soprattuto basket, hanno saputo attingere a piene mani trasformando il batti e corri in una sorta di terzo incomodo.
Incredibilemente Manfred e Co sembrano essersene resi conto, non saprei dire se per tempo, e sono corsi ai ripari con il riconoscimento di un passato fino ad oggi quasi totalmente ignorato. L’inclusione della Negro League dovrebbe essere, nelle intenzioni, il primo atto di un processo che mira a riconquistare l’interesse di un pubblico che oggi guarda e sogna altrove. Sarà interessante capirne il proseguo.
Quello che sta facendo la MLB non ha quindi nulla a che vedere con “politiche sociali” o con il rendere gustizia alla stroria o qualsivoglia stronzata progressista. Questi ideali non hanno diritto di cittandinanza in nessuna lega professionistica americana. Che si parli di Major League, NBA o la NFL, con sfumature diverse, non fa differenza. Sono business e devono produrre soldi. Ogni scelta è convenienza, che piaccia o meno.
Prima impareremo a convivere con questa evidenza e meno tempo perderemo in futuro per giustificare i commenti in mandarino di Silver piuttosto che il silenzio di Manfred durante l’estate dei riot americani o le paraculate dei cambi di nome di franchigie in nome del politicaly correct sottoforma di contratti di sponsorizzazione
Come mi è capitato spesso di scrivere viaviamo nell’era del Say The Right Things. Il riconoscimento della Negro League, per quanto possa farmi piacere da tifoso, non ha nessun altra motivazione se non quella di riconquistare un pubblico che possa portare denaro nelle casse delle franchigie e della lega. Gli stessi afroamericani, avendo ormai compreso pienamente le dinamiche che regolano il giochino, hanno risposto in modo tipedido, quasi non sentissero il bisogno di questa ammissione di colpa.
Il coraggio di quegli eroi e le ingiustizie perpetrate ad un popolo, nello sport come nella vita di tutti i giorni, erano già chiare a tutti e da molto tempo. “Fa piacere” constatare che nel 2020 se ne siano accorti anche nella stanza dei bottoni.