Si può sapere in che razza di mondo viviamo dove un proprietario sceglie consapevolmente di giocare metà stagione in una città e l’altra non solo in una metropoli diversa, ma in uno stato differente?
I Tampa Bay Rays, in lotta fin dall’inizio della stagione per la leadership della AL East, sono attualmente la squadra con il payroll più basso della MLB e penultimi per media spettatori con circa 14.000 cristiani a partita, dietro solo agli irraggiungibili Miami Marlins. Il contratto televisivo è imbarazzante e giocano in uno stadio, il Tropicana Filed, da cui vorrebbero scappare ma a cui sono legati da un contratto fino alla stagione 2027.
L’idea malsana, in cui probabilmente vi sarete imbattuti, sarebbe quella di disputare la prima parte della stagione in Florida per poi spostarsi in Canada verso Luglio e terminare lì la RS (non è dato sapere dove si giocherebbero gli eventuali playoff, ma ci torneremo).
Le problematiche relative a questa follia sono molteplici e cercherò di riassumervele nelle prossime righe, prima però è giusto ricordare come i Montreal Expos, il partner in crime di questo suicidio sportivo, prima del definitivo trasferimento a Washington nel 2003 giocarono ben 22 partite “casalinghe” in Puerto Rico (non si finisce mai di sbagliare…)
L’ideale punto di partenza di questa vicenda è necessariamente il nuovo stadio che l’attuale proprietà dei Rays starebbe chiedendo da tempo ma che l’amministrazione locale non ha mai approvato. Come probabilmente già saprete il problema delle nuove arene, e dell’eventuale e conseguente relocation, è tipico del business delle leghe americane. Due casi di studio significativi sono quello attualissimo degli Oakland Raiders nella NFL e dei Seattle (super)Sonics, oggi OKC Thunder, nella NBA. I primi andranno a giocare a Las Vegas nel 2020 dopo anni di battaglie mentre Seattle, che nel 2008 perse gli amati Sonics per non aver trovato l’accordo per la costruzione della nuova arena, ha dovuto rinunciare in prima battuta al privilegio di poter veder diventare stelle giocatori del calibro di Durant e Westbrook, che proprio nella rain city avevano mosso i primi passi, e poi di godere in toto dello spettacolo della National basketball Assosiation nonostante sommosse popolari che nel tempo hanno espresso il desiderio, quasi la necessità, di un ritorno del grande basket nello stato di Washington.
Il paradosso del affaire Rays è che la “grana nuova arena” resterebbe d’attualità anche con il sodalizio canadese. Alla base dell’accordo con la cordata dello sciroppo d’acero ci sarebbe infatti la necessità di costruire comunque un nuovo impianto (anche) in Florida che costerebbe sì meno, perché si farebbe senza tetto, ma che obbligherebbe comunque la proprietà di Tampa e l’amministrazione locale a trovare un accordo su qualcosa che è la motivazione per cui i Rays stessi vorrebbero lasciare la penisola dei pensionati.
Partiamo male.
Ora, ammettiamo anche solo per un secondo che la follia si concretizzi, che Tampa costruisca il nuovo stadio e parallelamente si consumi il matrimonio con Montreal.
Immaginatevi un roster di 25 giocatori (pagati in dollari americani o canadesi? E le tasse?) che sarebbe costretto a traslocare a metà stagione, o la perdita di appeal verso un free agent che dovesse scegliere tra i Rays e qualsiasi altra squadra a prescindere dalla forza del team. Tampa rischierebbe di diventare per i giocatori quello che la cryptonite ha sempre rappresentato per SuperMan: qualcosa da cui tenersi alla larga.
Uno dei problemi atavici dei Rays, e di molte delle squadre della Florida, è lo scarso interesse che riescono a generare a prescindere dai risultati. Basti pensare che le cheerleader come oggi le conosciamo sono nate a Miami, durante il periodo ABA della franchigia, per dare una scusa in più agli spettatori di recarsi al palazzetto per le partite dei diversamente competitivi Floridians, durati un battito d’ali nella lega che poi si fuse a metà degli anni 70 con l’NBA ed il cui lascito furono 4 franchigie, Dr J, il tiro da tre punti e alcune delle basi del concetto di entertainment, tra cui proprio le ragazze in bikini a bordo campo. Una fan base quindi non già presentissima si troverebbe senza squadra dopo pochi mesi ed un’altra, quella canadese, seppur con tutto l’entusiasmo del mondo (almeno in una prima fase) si vedrebbe arrivare la squadra così, de botto, senza senso, col rischio magari di trovarsi a (dover) seguire una stagione già compromessa senza avere le motivazioni per farlo. L’effetto collaterale sarebbe un contratto televisivo peggiore di quello attuale, pochissimi (half) season-tickets venduti ed una media spettatori pronta a scalzare i Marlines dal fondo della classifica a meno di volersi immaginare charter di pensionati con la combo scarpa/calza bianca fare la spola tra Florida e Canada (più verosimile il contrario, almeno dal punto di vista climatico, anche se per pochi eletti dal deposito medio a sei zeri)
Viene poi da chiedersi dove verrebbero giocati gli eventuali playoff. La logica imporrebbe, escludendo categoricamente il “una partita qua/una là”, l’alternanza stagionale Florida/Canada. Sarebbe forse il minore dei problemi ma rappresenterebbe comunque l’ennesimo ridicolo compromesso di cui onestamente nessuno, alla lunga, sentirebbe più il bisogno.
Questi sono solo alcuni degli aspetti che lasciano pensare come l’idea Montreal, e tutto il caos creato ad arte dal managment dei Rays, sia servito più che altro a far tornare d’attualità il problema “Tropican Field” dopo il “fallimento” del progetto Ybor City, nella speranza di costringere l’amministrazione locale a sedersi attorno ad un tavolo e scendere a compromessi. In un certo senso Tampa Bay sembra essere ostaggio di un proprietario che dichiara di non voler spostare i Rays ma fa di tutto per non concretizzare la sua volontà e da una amministrazione che non pare essere così preoccupata dall’eventualità di perdere la franchigia.
Quello che sembra certo è che la soluzione non possano essere i Mont’Bay X-Rays, almeno non adesso, non in questo mondo, o forse, non fino al 2027 quando “finalmente” a Tampa saranno padroni del proprio destino.